Warera no kyōki wo ikinobiru michi wo oshieyo (1969) – Kenzaburō Ōe / Giapponese
Ōe, una delle voci più intense e personali del panorama letterario novecentesco, ripercorre le tappe cruciali della propria vita con un vivo interesse e partecipazione. Le sue sono storie che viaggiano velate su binari scorrevoli non prive di quell’inquietudine profonda che è poi il punto focale del suo operato. Come egli stesso ha ammesso, il suo può essere definito un realismo grottesco, la cronaca fedele di esistenze deformi, malate, imbruttite. Ecco che, attraverso quattro racconti, l’autore nipponico dà vita qui ad una raccolta viva, sentita, accuratamente costruita per sconvolgere il proprio lettore, porlo di fronte ad interrogativi quantomeno inusuali. Per comprendere meglio quello che è il fulcro dell’opera, conviene distinguere, prendendo le quattro vicende (in ordine: ‘Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime’, ‘L’animale d’allevamento’, ‘Insegnaci a superare la nostra pazzia’, ‘Aghwee, il mostro celeste’) ed esaminando innanzitutto la prima e la terza, che sembrano condividere molte caratteristiche, dai personaggi ai loro tratti distintivi fino al protagonista stesso. Se infatti nella seconda si tratta di una vicenda bellica narrata e raccontata dagli occhi di un bambino – la storia di un soldato nero catturato e tenuto prigioniero in un villaggio giapponese – e nell’ultima di un giovane incaricato di accompagnare un famoso compositore convinto di passeggiare col fantasma di un grosso bambino in camiciola bianca (lo spettro del figlio morto); se dunque queste due vicende trattano temi differenti tra loro, due aspetti del passato dell’autore, la fuga dalla realtà ed un mero ricordo infantile realmente accaduto all’autore (da cui il celebre cineasta Nagisa Ōshima trarrà poco dopo il film ‘L’addomesticamento’), le rimanenti due catturano l’attenzione per la grande intensità e per la dovizia di richiami extra personali.
L’alter ego dell’autore è infatti un adulto intorno alla trentina ancorato al passato, al padre assente e alla madre colma d’odio e di rancore per un figlio stupido e mai desiderato. Il suo rifugio diventa fin dall’infanzia una pazzia, una gabbia rassicurante che lo isola dal mondo esterno. E così vorrebbe lui. Purtroppo il presente è drammatico, i frutti dell’esistenza fin lì trascorsa sono scoraggianti, una malattia degenerativa che lo porta sul letto di morte nel primo caso e un figlio obeso e portatore di handicap nel secondo. Rifacendosi ai versi del poeta britannico W. H. Auden, il titolo scelto da Ōe invoca una soluzione, prega di riuscire a sfuggire alla pazzia combattendo l’instabilità psicologica che (assieme alle patologie che con cura richiama e mette a nudo per mezzo dei suoi personaggi) è un po’ il volto moderno del suo paese.
KO infatti non nega di ricercare nei propri scritti una dimensione letteraria propria, frutto del passato di una nazione quella Giapponese, che come l’Occidente da lui molto ammirato e studiato (le sue prime influenze risalgono alla Francia esistenzialista di Sartre e Camus) rispecchi i tragici frutti del miasma politico e umano pre e post conflitti mondiali. Attraverso uno stile pacato ed equilibrato egli alza sipari scomodi, brutture dalle quali ci si vorrebbe estraniare: proprio come il protagonista del suo primo racconto, vorremmo indossare strani occhialini in modo tale da alterare la realtà in atto. Eppure, il volto grottesco del presente da lui voluto e ricercato, si mostra sotto una luce del tutto inaspettata. Lo stile dell’autore infatti, lungi dal tessere complicati arabeschi nella costruzione del tessuto narrativo, si alimenta di un linguaggio semplice, di ritmi piuttosto blandi, controllati, quasi mai si presentano veri e propri momenti di tensione o di particolare rilievo ai fini dell’intreccio. Come raramente accade, il fascino di un’opera risiede nella sua straordinaria abilità di correggere lo sguardo verso un’interpretazione soggettiva di un trauma collettivo, con audacia e con grande padronanza dei propri mezzi.
Voto: ★★★/★★★★★