Il piatto piange

Il piatto piange (1962) – Piero Chiara / Italiano

Siamo all’alba del Novecento e in un tranquillo paesino di provincia – affacciato sul Lago Maggiore – la vita scorre beata e tranquilla. Chiara parte da qui, da queste premesse e, senza discostarsene troppo, ci narra di quelle stesse esistenze di paese apparentemente prive di interesse. Ecco allora che, attraverso il punto di vista del narratore, egli stesso concittadino e parte attiva della folta schiera di paesani, apprendiamo da un lato ciò che rende ciascuna persona unicamente rappresentativa di quel mondo, dall’altro ciò che ha contribuito a renderla tale, tutto quell’insieme di fattori intrinseci all’ambiente sociale rappresentato.

In questo caso, trattando della narrativa dell’autore, risulta chiaro quanto l’attenzione si posi non tanto sul dipanarsi degli eventi o sulla complicata trama che li lega l’uno all’altro, l’intreccio quindi, bensì (con particolare attenzione in questo frangente) sul rendere onore ad una determinata realtà e a chi l’ha vissuta ben lontano dai riflettori, alla povera gente. Gente che vive d’istinti e d’ignoranza, nella speranza di un domani meno avvilente, trascinandosi di giorno in giorno tra bische e bordelli, incrociando i medesimi volti, gli stessi sguardi. Lungi per questo dal render loro esemplari di cattiva condotta, Chiara sembra quasi voler dipingere uno scenario, come un pittore particolarmente attento alla fedele ricostruzione dello stesso in ogni suo minimo particolare. In questo modo ogni elemento di contorno o secondario, sfumato ai bordi dell’opera, viene investito di una rilevanza maggiore del consueto.

L’avvento del Fascismo però cambiò tutto: nuove menti al potere, talora avvolte nell’ombra a tirare le fila del paese, ora la paura serpeggiava nei cuori, repressioni e ingiustizie all’ordine del giorno minavano la tranquillità pur di un modesto paesino di provincia come quello in causa. Anche in questo caso, l’opera non si sofferma tanto sulla storicità di un tale frangente, ne riporta invece l’incidenza nella quotidianità; l’evento storico, a differenza di molti altri romanzi italiani di quel periodo, non è il fulcro dell’opera, al contrario viene tenuto ai margini del racconto in modo tale da non alterare l’immagine, la cronaca portata dall’autore.

É probabilmente questa la grande intuizione di Chiara, provare per una volta a (non ignorare, questo no, ma) forzare in secondo piano ciò che logicamente avrebbe richiesto molto più spazio, senza per questo ‘sbagliare’. Il risultato? una narrazione incentrata sui problemi (minimi o meno a seconda del caso) quotidiani, quelli che nessun libro di storia riporterebbe ma che ad uno sguardo più attento rappresentano il cuore della nazione italiana ed il vero volto dei suoi cittadini, vero in quanto altamente rappresentativo. Il lettore si trova così ad ascoltare una voce fuori dal coro, un duplice volto che al contempo tradisce e ripaga ogni aspettativa, ben lungi ciò dal rappresentare una contraddizione, anzi, semmai una visione a trecentosessanta gradi senza filtri o attenuanti se escludiamo un pizzico di gradita, coerente ironia.

Voto: ★★★ /★★★★★

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Il Processo

Der Prozess (1925) – Franz Kafka / Tedesco

Quelle di Kafka – si sa – più che vere e proprie narrazioni, ispirate e volte alla denuncia, d’avanguardia stilistica o interesse puramente favolistico, somigliano a parabole o meglio ancora a confessioni: diari di un uomo il cui io profondamente travagliato reclama la propria giustizia, il cui senso di colpa necessita una pena da scontare. Tutta quanta la sua produzione può dirsi fortemente influenzata dal fondamentale senso di inadeguatezza dello stesso nei confronti di una realtà a lui estranea, incomprensibile. L’opera in questione è probabilmente quella che con più audacia ha saputo tradurre e l’animo dell’autore e lo spirito di un secolo in rapido mutamento.

Josef K., l’innocente protagonista, si ritrova tutto d’un tratto indagato e processato senza avere la minima idea del presunto reato commesso. La macchina giudiziaria a capo di tutto ciò si dimostrerà presto un’impenetrabile, disumana autorità la cui sentenza pare già decretata. Il perno del romanzo consiste di base nell’accettazione incondizionata di un qualche torto commesso, di una colpa, un peccato originale cui Josef non può sottrarsi. È parte di lui, connaturata al suo essere, al suo far parte di una comunità. Le ragioni alla base di ciò vanno dunque ricercate nei trascorsi del Franz Kafka individuo ed è proprio partendo da questo assunto che si intuisce immediatamente la natura dell’opera come un qualcosa di personale, privato come Kafka stesso intendeva rimanesse, uno sfogo che rimane agli occhi del lettore come qualcosa di astruso, impenetrabile. Non vi è una logica di fondo laddove non ci è dato sapere cosa effettivamente spinga gli attori di questa commedia (o forse sarebbe meglio dire tragedia) ad agire in un modo piuttosto che in un altro, in tal senso non ci vengono fornite spiegazioni, né tali spiegazioni agevolerebbero la fruizione della vicenda, anzi. A rendere l’opera il pregevole esercizio stilistico ad oggi ritenuto, uno dei testi letterari fondamentali per la comprensione del Novecento umanistico, è proprio la sua capacità di restituire a un racconto metaforico un realismo di carattere fortemente allegorico.

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FK si inserisce di diritto, seppur (forse) inconsapevolmente, tra i filosofi del suo secolo, tra cioè quei narratori capaci di conferire ai propri lavori un carattere universale, pregno di concretezza – quest’ultima scelta lessicale parrebbe quasi un paradosso nel caso dell’autore ceco. Questi lo si potrebbe addirittura considerare un ‘discepolo’ di quell’orrorifico psicologico istituito da Poe, e più in generale dal romanzo gotico, quasi cento anni prima nella misura in cui incutere paura non implichi necessariamente minuziosità e perizia nella costruzione di creature spaventose o malvagità di ogni sorta. Il suo infatti è un superamento di quel concetto: a spaventare non è più qualcosa di astratto, intangibile bensì insito nella natura umana, proprio della stessa. In fondo, Josef K. non è che schiavo di sé stesso, della propria incapacità ad affrontare la vita. Trascorre un’esistenza da emarginato perchè tale si sente, dilaniato da un senso di inferiorità che si concretizza come tale solo in quanto frutto delle sue stesse convinzioni, questa e questa soltanto è la causa delle sue sciagure, non a caso in Die Verwandlung (dal tedesco, ‘La Metamorfosi’) l’alter ego del protagonista si tramuta inspiegabilmente in uno scarafaggio, e da lì nascono le sue pene.

Lo stile impiegato appare in questo frangente persino più maturo e ricercato in confronto a casi precedenti. Diretta, semplice, priva di abbellimenti, la prosa sottolinea il contrasto tra la brutalità della stessa e quella degli avvenimenti così da imprimere una certa frenesia alla narrazione, un inquieto malessere rafforzato da scelte lessicali sovente aggressive e un’ironia sardonica, amara. ‘Il Processo’ è forse la prova vivente di una costruzione al contempo essenziale e proprio in virtù di ciò solida e incisiva, l’apoteosi del pensiero decadentista europeo.

Voto: ★★★★★/★★★★★

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Top 25 Migliori Romanzi Ottocenteschi

RODIN

Il fascino magnetico della prosa sottolinea ed esalta il dualismo vita – morte, grazia – orrore in questo classico senza tempo sull’umana vanagloria. 

Come degno filosofo, studioso della psiche, Dostoevskij esplora le cause dell’alienazione sociale portandone le conseguenze agli estremi. Il dilemma posto è sul se e come venire a patti con sé stessi e con le proprie colpe. 

L’operazione in questo caso riprende – non senza correggere ed approfondire – i diktat veristi, attenuandone il lessico ed accentuandone di contro le conclusioni in materia sociale: un precursore a tutti gli effetti della letteratura decadentista.

Un manifesto socio-politico consumato dalla rabbia: sconcio e impietoso nella resa, tragico nelle conclusioni.

Solo la smodata ambizione intacca il bizantino schema dell’opera in causa, di per sé pregna di riflessioni e compendi filosofici coerenti oltre ogni previsione (teologia a parte).

  • Storia di Arthur Gordon Pym (1838) – Edgar Allan Poe

Invero, a terrorizzare – ben più degli eventi narrati – è la consapevolezza di trovarsi a tu per tu col peggiore dei propri incubi, intrappolati in spazi angusti, divorati dall’orrore. 

Il sapore amaro di un’opera che interpreta impietosa la Parigi di quel tempo, straordinaria nel dipanare trame e sottotrame di caratteristico ardore.

Apparentemente fin troppo conforme alle aspettative, rivela al lettore più acuto l’audacia di un autore contro le passioni imbellettate ed i quadri politici impostati.

L’intreccio amoroso diviene pretesto di studio sulla psicologia di coppia, quest’ultima a sua volta asservita ad un linguaggio aulico che ne magnifica i tratti.

  • I Miserabili (1862) – Victor Hugo

“…finché sulla terra vi saranno ignoranza e miseria, libri della natura di questo non potranno essere inutili.” Victor Hugo

Un concentrato di poetica dickensiana votato – più che alla denuncia – al riscatto della classe operaia, dei reietti; eccezionalmente carico di pathos.

Il vile denaro corruttore muove i fili di questa satira agrodolce sui rapporti di potere nella burocrazia russa.

Meno romanzesco di quanto non ci si aspetterebbe, quello di Melville si rivela essere un azzimato sproloquio sulla navigazione fregiato del calamitico fascino del folle Ahab, icona letteraria immortale.

L’abile trattazione – della tela sociale e dei profili che vi si dibattono all’interno – esalta un grande dramma al femminile ostruito ahimè da tante, troppe, parentesi.

  • Jane Eyre (1847) – Charlotte Brontë

Proseguendo il lavoro sull’emancipazione della donna intrapreso dalla Austen, CB racconta una vicenda carica di personalità e sfumature, struggente e passionale come poche altre.

Più dei due sopracitati quello in causa fu, con tutta probabilità, il primo grande esempio di romanzo femminista – elevando l’autrice a massima autorità del genere.

Un onesto, temerario esame di coscienza su come si è evoluta la Russia dell’epoca, politicamente ma soprattutto umanamente, leggendo nelle anime dei giovani che la forgiano e dei padri che ancora la sorreggono.

  • Dracula (1897) – Bram Stoker

La miglior dimostrazione dell’importanza di Poe nella letteratura orrorifica, una crociata contro le schiere del male tra mendaci alture transilvaniche.

  • Papà Goriot (1834) – Honoré de Balzac

Di come porsi e distinguere tra nobiltà e nobiltà d’animo in una realtà fagocitata dal dislivello sociale: la tragedia di un pover’uomo.

  • La Lettera Scarlatta (1850) – Nathaniel Hawthorne

Una favola d’altri tempi che svecchia notevolmente i significati di comunità e suo membro in relazione ai principi cardine (religiosi?).

  • Cime Tempestose (1847) – Emily Brontë

Simile sotto molteplici aspetti al gemello ‘Jane Eyre’, quello della sorella Emily è un romanzo che conserva toni cupi e travagliati slittando tuttavia verso una narrazione caotica e un’intreccio fin troppo pedestre.

  • Emma (1815) – Jane Austen

La delicata frivolezza emanata dall’opera in causa – pur ponderata nelle sue riflessioni – lascia il passo ad una maturità stilistica ed un candore fuori dal comune.

Assieme a ‘Papà Goriot’ definisce al meglio l’uomo ottocentesco calato nel proprio contesto, commistionando altresì astio e mestizia nel raccontare di un uomo preda di tempi bui.

  • La Certosa di Parma (1839) – Stendhal

Epico dramma in terra italica che orchestra scaramucce di cuore a impietosi giudizi morali.

  • Il Piacere (1889) – Gabriele D’Annunzio

Vera e propria opera d’arte di pregevole finezza e caratteristico ardore ove (am)mirare le gesta dell’esteta.

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L’educazione sentimentale

L’éducation sentimentale (1869) – Gustave Flaubert / Francese

Nell’ottica di Gustave Flaubert, probabilmente, ‘L’educazione sentimentale’ è un capitolo centrale per la comprensione della propria poetica, senza’altro più ambizioso dei precedenti. Il topos sentimentale e l’analisi della figura femminile, pur sempre centrali nell’opera, non sono infatti gli unici interessi dell’autore, che si preoccupa in larga misura di intessere un dettagliato e tutt’altro che generico sfondo storico, esaltandone le sfumature socio-politiche. Ne deriva un quadro che, seppur non scevro da difetti (anzi), sottolinea l’ambizione di un uomo pienamente addentro i meccanismi e le dinamiche del proprio mondo. Che dire dunque del romanzo in questione, tra i più celebri del suo secolo nonchè cardinale nell’inquadratura del Naturalismo ottocentesco?

Frédéric Moreau è un giovane ambizioso che dalla campagna si trasferisce nel cuore parigino per penetrare nell’alta società una volta finiti i suoi studi. Tralasciando ogni tipo di impiego o aspirazione, la sua diventa una vita all’insegna dell’ozio, unico scopo quello di sedurre e conquistare Marie Arnoux, la moglie di un facoltoso borghese. Nonostante tutti i suoi sforzi, il suo sarà un amore platonico corrisposto ma mai accettato dalla donna. Non meno di Frédéric, i personaggi del romanzo si affannano così per sopravvivere nell’agiatezza sullo sfondo di una capitale nel caos più totale, in un quadro tra i più degradanti della borghesia parigina.

The-Confession

Riusciva, all’epoca, estremamente avanguardista trattare di sconfitti, di ‘inetti’, più di trent’anni prima del Novecento, quasi mezzo secolo prima che in Europa si diffondesse il decadentismo nonchè in anticipo persino sul lavoro pre-esistenzialista dei ‘poeti maledetti’. Perchè quello in causa è un romanzo decadentista, disilluso, che rappresenta – seppur in maniera sconclusionata e per certi versi grossolana – la crisi ottocentesca trattando di una generazione di giovani: crogiolati dall’idea di una ricchezza e di uno status sociale dovuti, a portata di mano, privi di maturità, inadatti insomma a costruire una società partendo dall’umiltà e dal lavoro. Flaubert da questo punto di vista struttura il romanzo come una corsa a due binari, dove da un lato osserviamo l’irrefrenabile passione amorosa del protagonista, dall’altro l’instabilità di due realtà, pre e post-monarchica – con i relativi tessuti sociali – sentenziando un finale amaro che è il capolinea di entrambe le linee nonchè probabilmente la nota più gradita.

Impossibile del resto non porre il parallelismo con ‘Madame Bovary’: Flaubert pensa a quella in causa come a una rivisitazione ampliata e perfezionata dell’appena citata opera (soprattutto in quanto a tematiche affrontate), cambiando il punto di vista da maschile a femminile e optando, laddove Emma riversava la propria frustrazione nella fornicazione, per un protagonista quasi impotente da questo punto di vista, impossibilitato a possedere il proprio oggetto del desiderio, ugualmente privo di valori: due loser a tutti gli effetti. Qui, in maggior misura, pesa purtroppo una riproduzione mai del tutto convincente dello sfondo storico, troppa superficialità nella costruzione dei personaggi e nei dialoghi, una narrazione poco sentita, poco accattivante, lineare e monocorde e una prosa che smentisce la matrice realista della penna francese. La prova vivente che anche in ambito artistico, alla volontà, all’efficacia degli sforzi, non corrisponde l’effettiva riuscita di un romanzo caricato in questo caso di troppe responsabilità.

Voto: ★★/★★★★★

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Lady Lazarus

Lady Lazarus, Ariel (1965) – Sylvia Plath / Inglese

L’analisi che, a rigor di logica, più si addice all’operato della poetessa statunitense Sylvia Plath (1932-1963) può considerarsi quella del contenuto, ovverosia di ciò che costituisce il corpo del testo, che lo forma in questo caso oggettivandolo. Considerare un qualsiasi componimento della Plath significa considerare innanzitutto il vissuto della stessa contestualizzandolo in maniera assai precisa: qui non vi è, infatti, nessun tipo di imposizione letterario-analitica (terzine costituite da versi liberi, anafore sparse, enjambement), come a sottolineare la natura fondamentalmente refrattaria alle imposizioni di SP ma anche e soprattutto quella narrativa dell’opera. Facendo riferimento alla stessa si potrebbe parlare di una sorta di sfogo, un canto liberatorio dove vengono incanalate la frustrazione e il pessimismo dell’artista, seppur riferendovisi sia più stimolante trattare della SP donna, meno dell’artista. La ragione di quest’ultima precisazione allude al femminismo che viene comunemente associato al suo nome, femminismo che molto deve al momento storico in cui si collocò oltre che alla sua effettiva, straordinaria natura. ‘Lady Lazarus’ viene concepita all’interno di uno dei periodi più delicati nella vita della poetessa in quanto segue l’abbandono del marito Ted dopo sette anni di matrimonio, nonché l’ennesimo tentativo di suicidio. Per lei la poesia rappresenta lo specchio dell’io, ciò che la tiene a galla e le permette di risorgere, proprio come Lazzaro, riferimento tutt’altro che casuale (in questo caso si parla dell’artista); in quanto tale, dunque, riflette null’altro che pensieri in flusso ricordando molto la Clarissa woolfiana. A dominare tematicamente è l’ossessione per il suicidio e conseguente risurrezione, interessante notare però l’utilizzo, la scelta dell’Olocausto e quanto ad esso è legato (sterminio di massa nazista, colpevolezza del popolo tedesco) come luogo entro il quale proiettare metaforicamente la propria condizione interiore universalizzandone il dolore, stesso procedimento – l’utilizzo cioè di luoghi allegorici – perfezionato e reso centrale in ‘Ariel’. Lo stile della Plath è estremamente tagliente, evocativo e forte proprio in quanto terribilmente diretto, le immagini affiorano nitide, soprattutto nelle prime strofe. La voluta crudezza di termini ad aprire (‘fermacarte il mio piede destro/occhiaie/fiato puzzolente/ciarpame’) cozza con il sarcasmo che invece chiude il componimento, SP alterna diversi toni e diversi umori rimarcando così la propria fragilità, la compiacenza con la quale si vede e descrive morta e oramai sepolta è la stessa con la quale enumera i suoi due tentati suicidi, uno per decennio. Non a caso l’anno successivo alla stesura dell’opera in causa sarà quello della morte per suicidio dell’autrice. ‘Lady Lazarus’ è il simbolo della ricerca di libertà dell’autrice, sia socialmente parlando in quanto donna, sia letterariamente: è l’immagine di un’individuo che vede nella resurrezione una condanna a ripetersi, rievocare un ciclo, quello vita-morte che la ossessiona e al quale si sente però profondamente legata, destinata quasi. Sylvia Plath è il dualismo tra morte e privilegio, suicidio e superbia. Termini che invero, se non precisamente contrari, di certo evidenziano quella che è una delle identità più dibattute del Novecento.

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Sommario di decomposizione

Précis de décomposition (1949) – Emil Cioran / Francese

Attorno al concetto di assoluto ruota essenzialmente il discorso di Cioran, quasi una lotta con se stesso, un grido tuonante nel silenzio di un vuoto. Si parla di un’insofferenza cronica, paradossale origine e risultato di una cognizione del nulla che imperversa ogni idea, entità o presupposto. Così, l’esistenza viene assorbita in quanto negazione e mai alterità. L’assoluto, allora, non è nient’altro che una proiezione, ma una proiezione indispensabile per ciò che intende dissolvere, infinitamente più grande di ciò che dischiude. Nella seduzione di questo compromesso viene d’altra parte implicata un’umiliazione irrevocabile, l’inganno di una salvezza si paga con la propria offesa e su tale vergogna non si ha alcuna possibilità se non quella di partecipare alla commedia e compiacersi attraverso di essa, rinunciando a se stessi. Caricarsi il peso dell’engagement esistenziale pure non sottrae alcunché alla costernazione cui si è destinati, imprescindibile poiché ontologica, ebbene a quale fine assoggettarvisi? Si negozia la trivialità di una condizione in misura della deferenza rivolta verso qualsiasi forma di costrutto etico che orienti la pratica del quotidiano; ciononostante, che si perseguano o meno principi dottrinali, non vi è modo di sfuggire a quel marchio perenne dell’abiezione che costituisce l’essenza e lì sedimenta: sovviene nel pensiero non appena questo richiama la propria immagine. In quest’ottica lo spirito non può essere, perché se fosse la sua stessa creazione lo smentirebbe. Nella sua contingenza si dimena per giustificarsi, e lo fa per via del verbo: la parola, qualificando i concetti, li esaurisce in uno spaziotempo che si dà nell’eternità, favorisce e incoraggia l’attività. Al contrario, il mutismo di una solitudine apre irreversibilmente le porte alla decadenza (ciò a prescindere dal sapere), a quella decomposizione “in cui periscono senza eccezione le cose indegne come quelle onorabili.” Perciò nasce il bisogno di adorare, misurarsi d’intensità auto-concessa. È l’unica consolazione possibile per l’anima: disertare la ragione, darsi alla prostituzione in assenza di spirito, vale a dire eclissarsi in Dio, per quanto entità senza verità di ragione raggiungibile solo e soltanto nell’unicità di una verità di fatto e nella risoluzione dell’infinito quali assopiscono la coscienza dell’assoluto che si impersonifica. In tale fatalità si viene annientati, forzati ad abbracciare una non-etica che si spiega in quanto teoria del nulla cosmico, ossia, più brutalmente, si riconosce di non poter spiegare. Libertà diviene infine sinonimo di blasfemia, l’unica libertà degna di tale appellativo è il suicidio. Ma allora per quale ragione trattenere il gesto, unico mezzo di espiazione capace di sconfessarsi?

Togliersi la vita sembra un atto tanto chiaro e semplice! Perché è così raro, perché tutti lo evitano? Il fatto è che, se la ragione sconfessa la voglia di vivere, il nonnulla che fa prolungare gli atti è comunque di una forza superiore a tutti gli assoluti; esso spiega la tacita coalizione dei mortali contro la morte; esso non è solo il simbolo dell’esistenza, ma è l’esistenza stessa, il tutto. E questo nonnulla, questo tutto non può dare un senso alla vita, ma la fa nondimeno perseverare in ciò che essa è: uno stato di non suicidio.

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Il Lupo della Steppa

Der Steppenwolf (1927) – Hermann Hesse / Tedesco

Gli anni venti furono un decennio critico per Hermann Hesse. Tra gli strascichi di una lunga depressione, un tracollo nervoso e due vite da ricostruire, privata e lavorativa, l’autore cercò conforto nella penna. ‘Il lupo della steppa’ è, per quanto possibile, la trasposizione fedele dei principali avvenimenti in cui egli dovette incorrere ed il suo protagonista nient’altro che un riflesso. Harry Haller infatti è un uomo schivo, solo, miseramente chiuso nella propria bolla di intellettuale squattrinato e vive i cinquant’anni all’ombra di un improbabile suicidio. Il romanzo ci introduce questa figura alle prese con la propria quotidianità, giornate descritte come “abbastanza sopportabili”, “tollerabili e accucciate”. Egli ama definirsi un ‘lupo della steppa’, una sorta di soggetto bipolare ospitante due anime, quella del lupo e quella dell’uomo: mentre la prima lo spinge verso l’isolamento e il tedio, la seconda tende a spronarlo verso comportamenti in armonia col prossimo, col mondo esterno. Questa sorta di stabilità, seppur in continua discesa, viene spezzata dall’incontro con Erminia, giovane vivace e focosa, al contempo spiritualmente affine ma caratterialmente opposta, che introduce Harry ai diversi piaceri della vita insegnandogli a ballare, a divertirsi in compagnia e a vivere intensamente l’esperienza sessuale. A questo punto l’opera scivola nel surreale, intrecciando deliri allucinogeni a metafore dall’interpretazione sempre più complessa e stratificata; un universo fantastico che si alimenta dei desideri, delle paure e delle reminiscenze di Harry fino a tramutarsi in tribunale, la cui sentenza severa e senza appello non tarderà ad arrivare.

Il pensiero di HH, celebre per le sue varie, numerose influenze, talvolta persino contrastanti, si nota essere qui ulteriormente sviluppato in una lettura dell’uomo europeo dalla quale emergono l’influenza della psicoanalisi ma anche e soprattutto l’inserimento dell’individuo novecentesco all’interno di una profonda crisi esistenziale, dei valori e socio-politica – come avrà ampiamente modo di chiarire in più di una digressione a riguardo. Contraddizioni dunque presenti, riproposte in una storia sì di sofferenza e crisi ma proiettata in ultimo verso una guarigione. L’introduzione cioè di uno scenario che si propone come temporaneo, rispetto ad un mondo spirituale nobile e immortale (come spiega l’autore stesso nelle note di fine libro).

lupo

  • A proposito di immortale, è un concetto questo cui il Nobel tedesco dedica ampio spazio, più precisamente al concetto di ‘immortali’. Le figure di Goethe e Mozart (evidentemente considerati i più illustri esempi di eminenza artistica e letteraria) divengono il tramite per riflettere sull’aldilà, su cosa ci si possa aspettare dalla morte, dunque come comportarsi in vita. L’ironia, più volte sottolineato dalla critica come valore preponderante nell’opera in causa, contraddistingue in questo caso le due figure sopraccitate vantandosi di essere la principale dote da ricercare nella vita, la stessa che avrebbe dovuto scongiurare l’omicidio finale. È, in fin dei conti, ciò che viene rimproverato ad Harry, ma è anche un modo per chiarire l’importanza del non sopravvalutare la cultura e più precisamente il passato culturale, riderci su.

 

  • “Sarebbe saggio non dirtelo. Ma io non voglio essere saggia, Harry, almeno questa volta. […] Voglio giocare con te alla vita e alla morte, e prima di cominciare la partita voglio mostrarti apertamente le carte.”

    Erminia (seppur non meno di Pablo) può considerarsi figura emblematica del romanzo, la chiave di volta per dare un senso al tutto. Pseudo-onnisciente, è lei a scuotere il protagonista, rieducarlo alla vita reinserendolo all’interno di un mondo, quello vero, ben lontano dalle vecchie amanti e dagli ex professori bigotti. Lo conosce, lo comprende, ha un piano per lui, eppure ciò non basta a convertirlo del tutto ai neo-insegnamenti, la sua serietà lo porta a commettere l’atto estremo, verso la via più facile ed istintiva, dove cambiare non debba significare necessariamente adattarsi al tempo e al luogo corrente, porsi sullo stesso piano del prossimo omologandosi ad esso. La personalità della giovane tuttavia viene ben poco approfondita, le sue decisioni sono parte di un quadro che la trascende: Hesse non maschera l’entità fortemente emblematica dei suoi personaggi, escluso Harry, abbozzandone appena le caratteristiche – fisiche e caratteriali.

 

  • ‘Teatro Magico’ e Frammentazione dell’Io: Se nel corso della prima parte del racconto venivano fornite solo avvisaglie di quello che pareva essere un personalissimo surrealismo (le improvvise scritte al neon, il misterioso libricino rivelatore ecc), dalla metà in poi, con la scena del ballo in maschera, ci si avvede di un palese stravolgimento dei ritmi narrativi. Come intrappolato all’interno di un sogno, il protagonista viene catapultato in un teatro a ferro di cavallo i cui corridoi ospitano un’infinità di stanze dai nomi più stravaganti: ognuna di esse sottolinea con ilarità la presenza al suo interno di un rimedio contro i più disparati dilemmi umani. Queste si rivelano essere cruciali per la comprensione dell’opera. Mentre la prima mette in luce (attraverso una vicenda a dir poco grottesca) i dubbi e le critiche dell’autore nei confronti della guerra e dei regimi totalitari, la seconda vede Harry alle prese con una moltitudine di figurine, le sue svariate personalità. L’influenza dei concetti freudiani, in precedenza più volte sviluppati in ambito letterario (Pirandello, Woolf, Schnitzler ecc), mette in luce il concetto di frammentazione dell’Io. Fondamentalmente il soggetto si trova nell’impossibilità di esprimere la propria molteplicità, manifestarsi in quanto a potenzialità, preferendo invece l’unica personalità conosciuta – quella dell’Harry Haller così a lungo descritto ad inizio romanzo attraverso cornici letterarie di natura metanarrativa. Così egli, come già accennato, ammette di preferire il suicidio, la condanna a morte, la solitudine di un’esistenza comodamente passiva, alla rinuncia della propria serietà, della propria unicità. In questo modo si spiegano l’omicidio del protagonista così come la  sua condanna, o meglio, l’entità della stessa: vivere, vivere per imparare a ridere.

Voto: ★★★★★/★★★★★

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Canne al vento

Canne al vento (1913) – Grazia Deledda / Italiano

Tra fate, nani, folletti, giganti e vampiri, la Sardegna di Grazia Deledda – Premio Nobel per la letteratura – pare richiamare per toni e per intenti un panteismo arcaico, quasi a raccontare e popolare questa favola fosse la gente del popolo, poveri e semplici contadini, donne umili e forti, tutti quanti ancorati ai princìpi dettati loro dalla fede e dai loro antenati. Un mondo ai più estraneo, che si rivela per metafore mostrandosi attraverso scenari naturali propri delle sperdute vallate che circondano, abbracciando quasi, i pochi centri abitati. In un panismo che unisce la forza evocativa pascoliana alla cerimoniosa poetica dannunziana, le canne al vento dell’autrice schiudono di per sé un mistero rivelatore dell’impronta narrativa preponderante. Come hanno modo di chiarire verso il termine del sedicesimo capitolo il servo Efix e donna Ester:

– […] Perché la sorte ci stronca così, come canne?

– Sì, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.

– Si, va bene: ma perché questa sorte?

– E il vento, perché? Dio solo lo sa.

Il fato che pochi decenni prima tacciava amaramente Verga, torna nell’operato della Deledda non più come la triste sorte dei vinti, bensì come provvidenza di manzoniana memoria che, nel bene e nel male, segue una propria logica. Ciò però viene palesato solo a lettura ultimata, tramite le vicissitudini di Efix. Il suo è un percorso che l’autrice tiene a sottolineare, ovverosia quello del peccato a cui seguono l’espiazione ed infine il perdono. Un santo per certi versi, un peccatore per altri, la prima di una serie di svolte atte in qualche modo a sottolineare il dinamismo intrinseco all’apparente trasparenza dei personaggi dell’opera, da Giacinto a donna Noemi fino a don Predu.

CANNE

Deledda apre ad uno scenario ma, oltre a voler svelare quest’ultimo, punta a minimizzare l’intreccio riconducendosi ad un ottica di pura osservazione. La stessa che sul finale permetterà un sublime saggio sul punto di vista: un moribondo che osserva quanto lo circonda: la narrazione qui si fa frammentaria, minutamente riprodotta secondo l’occhio del soggetto, un lento disperdersi nel nulla, le sagome a svanire, le parole sfumano. L’arte di contemplare un luogo, un simbolo, un avvenimento o anche solo un sogno, un incubo notturno popolato da panas (spiriti di donne morte nel parto) e vecchi Baroni, diventa la chiave di volta per concepirsi all’interno della narrazione evitando il dilemma sul punto di vista. In questo senso la scrittrice sarda riesce nel difficile compito di avvicinarsi alla sua lingua senza calcarne le orme, seguendone le impostazioni sintattiche ma distaccandosi al contempo dal suo linguaggio estremamente complicato.

Il racconto, nella sua struttura circolareggiante, sfiora con leggiadrìa luoghi, fatti e individui, il tutto attraverso la figura del protagonista. Questi, Efix, è il servo delle dame Pintor, ultime rimaste di una famiglia nobile la cui fortuna è andata disperdendosi col tempo. L’arrivo improvviso del nipote di queste, figlio della sorella fuggita anni prima, affretterà la disgrazia della famiglia costringendo ciascuno a fare i conti con sè stesso e i propri drammi irrisolti. Ma, lungi dal moralizzare, GD chiude l’opera in modo tale da assicurare ad ognuno il proprio destino, se non con imparzialità, certo con coscienza e previdenza. La disgrazia di cui parla infatti altro non è che la fine di un’era, l’esortazione a non perdere di vista le radici della propria terra, del proprio essere: l’annuncio di una modernità di dubbio valore, per certi versi criticata ma mai del tutto condannata e sempre con grande senso critico.

★★★★/★★★★★

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Delitto e Castigo

Prestuplénie i nakazànie (1866) – Fedor Dostoevskij / Russo

In un periodo profondamente fragile della sua vita – a due anni di distanza dalla scomparsa di madre e fratello – afflitto dai debiti e in condizioni di estrema povertà, Dostoevskij decide di scrivere un romanzo di attualità, che parla proprio dei suoi tempi, della crisi economica, sociale ma soprattutto morale dilagante. Nasce così ‘Delitto e castigo’, dal bisogno di confessarsi maturato dall’autore durante gli anni che trascorsero dalla condanna a morte sino alla commutazione di pena a quattro anni di lavori forzati in Siberia.

Definito da Dostoevskij stesso “il resoconto psicologico di un delitto”, il romanzo intercorre tra le vicende di vari personaggi satelliti che ruotano alla figura centrale. Il protagonista, Raskol’nikov, giovane studente in perenne conflitto interno (“Raskol” in russo sta per “scisma)” preda di un’alienazione completa che lo opprime e gli impedisce di vivere in armonia con la vita borghese. La sua famiglia (madre e sorella), capace di tanto amore incondizionato da apparire incomprensibile agli occhi di Raskol’nikov stesso. I Marmeladov: padre, madre e figli, tra cui Sonja, della quale il protagonista si innamorerà. Il giudice istruttore, emblema della rettitudine ma altresì della scaltrezza, e infine Svidrigajlov, figura che abbina la ricchezza materiale alla miseria di spirito spinta sino alla depravazione morale. Nel complesso sono riconoscibili sostanzialmente tre sottotrame, inizialmente distinte e a seguire sempre più connesse l’una con l’altra: la faccenda familiare, quella amorosa e la questione psicologico/giudiziaria, legata al delitto del protagonista ai danni di una vecchia usuraia e della sorella.

Il racconto procede in un susseguirsi alternato di voci che spersonalizzano gli episodi conferendo un tono di imparzialità che universalizza gli avvenimenti, da qui la necessità di adottare una narrazione in terza persona (dapprima pensata in veste di diario/confessione, quindi in prima persona). Si esaurisce di fatto con la prima delle sei parti (epilogo escluso), l’omicidio commesso dal protagonista, fungendo pertanto da preludio alla storia, eppure il pensiero vi riporta in ognuna delle parti successive, come a voler sottolineare la cardinalità dell’evento (per quanto alcune digressioni appaiano del tutto indipendenti dal fatto, come tipico dei romanzo pre-moderni). Altrettanto tipici e caratteristici della narrativa ottocentesca sono alcuni temi che qui si riscontrano: dall’amore tormentato sino alla malattia psicosomatica che fonde il mondo corporeo a quello spirituale.

Nelle prime bozze dell’opera stava scritto “L’idea del romanzo è la concezione ortodossa: in cosa consista l’ortodossia! Non vi è felicità nel comfort, la felicità si acquista con la sofferenza. […] Non vi è in questo alcuna ingiustizia, perché la conoscenza e la coscienza della vita si acquistano con l’esperienza dei pro e contro che occorre provare su di sé con sofferenza.” Dunque la sofferenza come condizione beneficiaria, ma se nella religione questo dolore sottosta alla necessità di purificare lo spirito (e.g. nel catechismo cattolico), qui ha valore prettamente empirico, in quanto unica possibilità di costruire un ambiente favorevole all’esercizio di coscienza. Capiamo pertanto il romanzo essere incentrato su un concetto di morale diverso da quello religioso ma nemmeno propriamente laico, collocato in un limbo di mezzo in contatto con entrambe le parti. È certamente chiaro il rifiuto di ubbidire alle norme prestabilite che regolano i comportamenti tra i individui, l’incognita sta nel realizzare se potersi permettere o meno tale rifiuto. Dostoevskij, sotto questo aspetto, distingue l’umanità in due categorie: uomo ordinario e uomo straordinario. Il primo è talvolta etichettato come pidocchio, essere privo di personalità, schiavo della società e delle sue leggi. Il secondo è, al contrario, padrone delle proprie azioni, immune da qualsiasi forma di assoggettamento: solo in esso l’esistenza acquista importanza. Ecco, il delitto di Raskol’nikov altro non è che il tentativo estremo di ricondursi alla seconda categoria, dall’altro lato il castigo che segue (e precede) rappresenta sì la realizzazione del fallimento, l’impossibilità di tale impresa, ma soprattutto una seconda espiazione.

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Uccidere nell’aspirazione di affermarsi, sollevarsi per il bene dell’umanità trascendendo i principi vigenti o riconoscere il proprio status di inetto e rimettere la propria esistenza nelle mani degli uomini straordinari? Se nella prima metà del romanzo si è dinnanzi a questo bivio, successivamente la riflessione si sposta sul valore della redenzione una volta riconosciuta la propria immoralità e rassegnate le proprie speranze. Anche qui vi è una netta distinzione ed è qui che si salva il protagonista: mentre accettare se stesso libera Raskol’nikov dalla perdizione, l’abbandono di Svidrigajlov lo sprofonda nell’abisso della corruzione morale che già lo abitava.

È come se con il suo personaggio principale Dostoevskij volesse richiamare prima di tutto a un’educazione morale, impartire una grande lezione di vita. Le azioni di Raskol’nikov si compiono in prospettiva di una vita più grande, la carità e l’amore in lui vincono sul nullismo e sull’alienazione e in questo senso abbracciano una visione cristiana del mondo. Sopravviene naturalmente la morale sulla psicologia, perciò la personalità di Raskol’nikov risulta spesso incoerente, non convince e lascia spesso perplessi in quanto manca di conformità. Egli è la pedina attraverso la quale si evolve il discorso, perfettamente adatto quindi un personaggio privo di una forte personalità, discrepante e irresoluto, che risiede in una molteplicità di contraddizioni. Ecco che l’anonimato serve l’idea di un’etica universale. Allo stesso modo il contorno sociale, le condizioni di malattia e di miseria economica non hanno alcun valore causale nell’episodio cruciale, anche perché la decisione di uccidere non si stabilisce mai definitivamente nella mente di Raskol’nikov, viene  continuamente decisa e respinta. Sono presupposti che spianano la strada alla conversione, o meglio alla rinascita del protagonista, pretesti per aprire il varco alla sofferenza, la sofferenza come condizione salvifica per traghettare l’anima verso una riconciliazione con l’altro mondo.

Voto: ★★★★★/★★★★★

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Insegnaci a superare la nostra pazzia

Warera no kyōki wo ikinobiru michi wo oshieyo (1969) – Kenzaburō Ōe / Giapponese

Ōe, una delle voci più intense e personali del panorama letterario novecentesco, ripercorre le tappe cruciali della propria vita con un vivo interesse e partecipazione. Le sue sono storie che viaggiano velate su binari scorrevoli non prive di quell’inquietudine profonda che è poi il punto focale del suo operato. Come egli stesso ha ammesso, il suo può essere definito un realismo grottesco, la cronaca fedele di esistenze deformi, malate, imbruttite. Ecco che, attraverso quattro racconti, l’autore nipponico dà vita qui ad una raccolta viva, sentita, accuratamente costruita per sconvolgere il proprio lettore, porlo di fronte ad interrogativi quantomeno inusuali. Per comprendere meglio quello che è il fulcro dell’opera, conviene distinguere, prendendo le quattro vicende (in ordine: ‘Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime’, ‘L’animale d’allevamento’, ‘Insegnaci a superare la nostra pazzia’, ‘Aghwee, il mostro celeste’) ed esaminando innanzitutto la prima e la terza, che sembrano condividere molte caratteristiche, dai personaggi ai loro tratti distintivi fino al protagonista stesso. Se infatti nella seconda si tratta di una vicenda bellica narrata e raccontata dagli occhi di un bambino – la storia di un soldato nero catturato e tenuto prigioniero in un villaggio giapponese – e nell’ultima di un giovane incaricato di accompagnare un famoso compositore convinto di passeggiare col fantasma di un grosso bambino in camiciola bianca (lo spettro del figlio morto); se dunque queste due vicende trattano temi differenti tra loro, due aspetti del passato dell’autore, la fuga dalla realtà ed un mero ricordo infantile realmente accaduto all’autore (da cui il celebre cineasta Nagisa Ōshima trarrà poco dopo il film ‘L’addomesticamento’), le rimanenti due catturano l’attenzione per la grande intensità e per la dovizia di richiami extra personali.

CATCH

L’alter ego dell’autore è infatti un adulto intorno alla trentina ancorato al passato, al padre assente e alla madre colma d’odio e di rancore per un figlio stupido e mai desiderato. Il suo rifugio diventa fin dall’infanzia una pazzia, una gabbia rassicurante che lo isola dal mondo esterno. E così vorrebbe lui. Purtroppo il presente è drammatico, i frutti dell’esistenza fin lì trascorsa sono scoraggianti, una malattia degenerativa che lo porta sul letto di morte nel primo caso e un figlio obeso e portatore di handicap nel secondo. Rifacendosi ai versi del poeta britannico W. H. Auden, il titolo scelto da Ōe invoca una soluzione, prega di riuscire a sfuggire alla pazzia combattendo l’instabilità psicologica che (assieme alle patologie che con cura richiama e mette a nudo per mezzo dei suoi personaggi) è un po’ il volto moderno del suo paese.

KO infatti non nega di ricercare nei propri scritti una dimensione letteraria propria, frutto del passato di una nazione quella Giapponese, che come l’Occidente da lui molto ammirato e studiato (le sue prime influenze risalgono alla Francia esistenzialista di Sartre e Camus) rispecchi i tragici frutti del miasma politico e umano pre e post conflitti mondiali. Attraverso uno stile pacato ed equilibrato egli alza sipari scomodi, brutture dalle quali ci si vorrebbe estraniare: proprio come il protagonista del suo primo racconto, vorremmo indossare strani occhialini in modo tale da alterare la realtà in atto. Eppure, il volto grottesco del presente da lui voluto e ricercato, si mostra sotto una luce del tutto inaspettata. Lo stile dell’autore infatti, lungi dal tessere complicati arabeschi nella costruzione del tessuto narrativo, si alimenta di un linguaggio semplice, di ritmi piuttosto blandi, controllati, quasi mai si presentano veri e propri momenti di tensione o di particolare rilievo ai fini dell’intreccio. Come raramente accade, il fascino di un’opera risiede nella sua straordinaria abilità di correggere lo sguardo verso un’interpretazione soggettiva di un trauma collettivo, con audacia e con grande padronanza dei propri mezzi.

Voto: ★★★/★★★★★

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